ANNO 14 n° 118
Livingstone In Salotto
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29/06/2015 - 00:00

di Massimiliano Capo

VITERBO - Nella sua ''Piccola storia della fotografia'' Walter Benjamin apre scrivendo: ''La nebbia che avvolge gli albori della fotografia è di gran lunga meno fitta di quella che circonda le origini della stampa dei libri. Che l’ora di quell’invenzione fosse giunta era forse più evidente, e parecchi l’avvertivano - uomini che, indipendentemente l’uno dall’altro, tendevano verso il medesimo obiettivo: fissare le immagini della camera oscura, che si conoscevano almeno dai tempi di Leonardo''.

Qualcuno diceva, più o meno, che il futuro è dentro di noi prima che accada.

Che abbiamo, cioè, la capacità di avvertire in anticipo il mutamento necessario. Soprattutto quando il mutamento riguarda noi.

Sentiamo la necessità di cambiare, sentiamo di non essere più in sintonia col noi stessi precedente e sentiamo forte il desiderio di porre rimedio a questo sentire.

Sentiamo anche, e forte, il freno protettivo della resistenza al cambiamento, i lacci stretti del non voler abbandonare i confini del già noto per metterci in mare alla conquista di nuovi spazi.

E’ dentro la tensione di queste due forze che operiamo la nostra trasformazione possibile.

E’ nello scontro tra la nostra identità posseduta e quella che sentiamo di voler avere che proviamo sulla nostra pelle l’immane potenza del nostro essere sensibili.

La vita mi piace immaginarla come un processo di espansione continua.

Senza guide e senza certezze se non la forza irresistibile di dover tramutare incessantemente se stessi: per uno sguardo, per un sorriso, per un abbraccio, per una parola.

Per un amore, per una nuova amicizia. Per la fiducia che riponiamo nell’altro che incontriamo sul nostro cammino.

Basta una frase, un rigo appena, e si sente di non poter esser più come prima.

Crescere, espandersi, raggiungere equilibri diversi, perché a contare non è la meta (non c’è mai una meta) ma il percorso, la via che scegliamo di costruire ogni giorno nell’infinita disponibilità di tasselli che abbiamo per comporre il puzzle della nostra esistenza di cui saremo in grado di vedere la figura solo alla fine del nostro percorso.

E allora saremo stati aironi dalle ali dispiegate in volo o leoni dalla criniera al vento della corsa o panda seduti placidamente a mangiare foglie o, più probabilmente, un gioco di morphing incessante e senza fine dove le figure di partenza mutano in quelle di arrivo esaltando la provvisorietà benefica di una identità cangiante.

Qualche giorno fa ho ascoltato Franco Bolelli dire che crescere è la nostra dimensione vitale naturale. Che pensare di fissare un punto, un confine, a questa esigenza biologica significa appassire e quindi morire, anche solo metaforicamente.

Che si può essere felici solo crescendo. E che il carico di infelicità, dolori, sconfitte, errori, può essere meglio sopportato solo nella dimensione incontenibile della espansione di sé.

Espansione di sé che trova la sua ragion d’essere nell’altro da sé.

Herder ha scritto: ''Nel grado di profondità del nostro amor proprio sta anche il grado della nostra simpatia nei confronti degli altri, poiché in un certo modo possiamo sentire noi stessi solo negli altri''.

Dovremmo, quindi, esercitarci a praticare quello che Marco Belpoliti chiama altruismo introspettivo, dove, alla dimensione fisiologica tanto amata dai neuroscienziati che spiega molte delle nostre attività più o meno consce, si affianca l’allenamento continuato e costante all’empatia e cioè ‘alla capacità di contemplare ed immedesimarsi contemporaneamente con punti di vista differenti e con stati d’animo fluttuanti nel corso dell’interazione sociale.’

Che dire, cominciamo da qui: vogliamoci bene.





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